Sergio Bologna: Credenze popolari e fake news, 2021.
Ritorno al Medioevo. Qualcuno definisce così il tempo presente, popolato da convizioni che una volta si chiamavano “credenze popolari”, diffuse dai social e dalle tantissime “fonti di saggezza” con le quali guru e profeti della più diversa origine si guadagnano il pane. Che il Covid 19 sia un’influenza non diversa da quelle che ogni anno si verificano da decenni è appunto una tipica “credenza popolare” del tempo presente. Essa un po’ alla volta si è strutturata in un movimento, il movimento No Vax, che ormai ha non solo un carattere internazionale ma trova il suo alveo naturale in quella grande corrente dell’estremismo neoliberal che abbiamo visto all’opera nell’assalto a Capitol Hill. Dire che Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane o dire che il Covid 19 è una normale influenza non fa grande differenza. Se non quella di cambiare il nome di “credenza popolare” e di chiamarla fake news. Dico estremismo neoliberal perché a ben pensarci l’idea dell’assoluta libertà individuale come negazione della responsabilità verso terzi ha come altra faccia della medaglia quella della negazione del servizio pubblico (che è l’istituzionalizzazione della responsabilità verso terzi). Il No Vax si ritiene in diritto di contagiare gli altri, nega la propria responsabilità verso terzi. Per mascherare questa scelta “egoista” nega il contagio. In reltà conosco molte persone No Vax che si preoccupano di contagiare altri e si sottopongono a test ogni due/tre giorni oppure si isolano, conducono una vita semisolitaria, limitandosi a vedere persone con cui condividono le loro opinioni (spesso sono dei privilegiati che possono permetterselo e che mi ricordano tanto gli “sfollati” dell’ultima guerra). Sono persone che limitano la loro propria libertà e che in genere non vanno in piazza a urlare “Libertà, libertà!”
Esistono dunque forti differenziazioni all’interno dell’universo No Vax, per questo sin dall’inizio ho proposto di distinguere il singolo No Vax dal “movimento No Vax”, quello che si è manifestato nelle piazze sotto le mentite spoglie della protesta No Green Pass. All’inizio ho reagito male scambiando la complessità di quelle piazze con la semplificazione antifascista. Poi sempre più mi sono convinto che la criticità (o la trappola) rappresentata da quei cortei riguardava molto di più le lotte sindacali e la cosiddetta “area antagonista”.
Le lotte sindacali, qui l’esempio dei portuali triestini è da manuale, perché vengono trascinate su un terreno di sicura disfatta, quello della lotta a oltranza. Una forma di lotta che da sempre nella cultura sindacale è stata considerata perdente o riservata solo a chi non ha più nulla da perdere. Una lotta che ragiona (se ragiona) in maniera opposta a quella che segue la logica “resistere un minuto più del padrone”. Una lotta che non sa quando si chiude, non si pone il problema di cosa vuole “portare a casa”. Il grande ciclo di lotte ventennale che ha caratterizzato la storia italiana dal 1960 al 1980 è iniziato dallo sciopero dei 70 mila elettromeccanici milanesi all’insegna vincente di “resistere un minuto più del padrone” e si è concluso tragicamente con la lotta a oltranza dei 35 giorni alla Fiat. La lotta a oltranza trasforma la sconfitta in disfatta. Questa è storia. Non insegna proprio nulla?
Molto diversa è la partecipazione a quei cortei, in certi casi con ruolo trainante, della cosiddetta “area antagonista” perché, se ripercorriamo le vicende della sua formazione – e quindi dobbiamo risalire alla fine degli anni 80/inizi anni 90 – riusciamo a individuare chiaramente diversi filoni costituenti. Uno è quello rappresentato dalla resilienza di correnti politiche di lunga tradizione (anarchiche, internazionaliste, operaiste) che rimangono fermamente agganciate a sistemi che, benché stretti nei vincoli dell’ideologia, rimangono pur sempre dei sistemi razionali. Un altro è quello nato dai diversi processi di “contaminazione” (un termine molto caro a Primo Moroni, che sapeva cogliere con acutezza e largo anticipo i cortocircuiti che possono prodursi tra stati d’animo giovanili e correnti culturali mediate da forme d’arte come la musica e la letteratura, che si alimentano di credenze, di pensieri magico-esoterici e di pulsioni irrazionali). Nel corso del tempo queste hanno finito in parte per erodere il modo di pensare “politico” e di ridurlo alla forma nuda della rabbia, dell’incazzatura, dell’antagonismo determinato sempre dal progetto dell’avversario e mai da un proprio progetto. La politica ridotta a “No”.
Là dove questo “No” è rivolto a un ambito circoscritto e definito come la costruzione di un tunnel inutile sotto le Alpi, il movimento riesce a mantenere ancora un suo profilo politico (decidere una diversa politica dei traspporti attraverso una diversa pianificazione delle infrastrutture presuppone avere qualche idea sulla politica industriale di un paese, problema di non poco conto). Là dove il “No” ovvero l’antagonismo si trasformano in pulsione o sfogo di un disagio sociale e inviduale, hanno bisogno, per legittimarsi, di ricorrere a costruzioni allegoriche e a molti di quei dispositivi irrazionali, magico-esoterici che possono portare una certa area antagonista a confondersi e intrupparsi nell’estremismo neoliberal dei complottisti alla QAnon.
Quali sviluppi potrà avere sulle relazioni industriali e in genere sulle forme della conflittualità sociale o dell’espressione del dissenso questo rimescolamento delle carte provocato dalla pandemia e dalle politiche per arginarla?
Le lotte sindacali in quanto espressione del rapporto fondamentale capitale-lavoro dovrebbero poter restare meno permeabili a mistificazioni rispetto alle manifestazioni di conflittualità sociale o di espressione del dissenso. Non c’è guru, santone, profeta o influencer in grado di cambiare le carte in tavola quando si parla di rapporto tra capitale e lavoro. Tutto il resto è un’incognita, le grandi potenze della nostra epoca, Google o Amazon, quelle in grado di gestire i Big Data, si sono poste come obbiettivo esplicito quello di modificare il nostro cervello e temo che il primo risultato che stiano ottenendo sia quello della perdita del buon senso collettivo. Altrimenti non si spiegherebbe la facilità di penetrazione di certe credenze o l’assurdità di certi comportamenti. Nè basta a spiegarlo l’eclisse di quelle fonti di autorevolezza che sono state le chiese o i partiti. Pertanto dire che su questo piano il futuro è una grande incognita è dire quasi una banalità.
Nel caos del presente, nella babele delle lingue, è fortunato chi può trovare qualcosa di solido cui ancorarsi. Nel contesto creato dalla pandemia io penso che certe generazioni hanno avuto questa fortuna, quelle che hanno potuto conoscere lo sforzo di ricerca e di proposta di quel movimento di lotta per la salute pubblica che non a caso è partito proprio dallo studio delle epidemie, si è strettamente intrecciato alle lotte operaie degli anni 70, ha protetto milioni di persone dai rischi connessi ai luoghi di lavoro, alle modalità di lavoro, all’organizzazione del lavoro. Ha pensato come organizzare al meglio, per evitare questi rischi ed altri, come appunto quelli connessi alle epidemie, il sistema sanitario, ha pensato come formare al meglio il personale sanitario, come impostare al meglio una politica ospedaliera. Nel farlo ha dovuto scontrarsi costantemente con il Big Pharma e con un sistema d’interessi tra i più articolati e agguerriti. Però ha condotto un’azione sistematica che qualche segno nei grandi istituti di ricerca, sul territorio, presso le istituzioni preposte alla salute pubblica, lo ha lasciato. Se non fosse stato per l’opera di questo movimento, la gente oggi continuerebbe a morire d’amianto, tanto per fare un esempio. Qui non ci sono solo idee, c’é un’esperienza concreta con cui confrontarsi. E’ un patrimonio prezioso che qualche solido anello cui agganciarsi lo può ancora offrire, per non farsi travolgere dalle onde. Fare partecipi i giovani di questa esperienza, che non hanno vissuto, è cosa buona e utile. Meglio che mettersi a discutere con un No Vax.